I simboli del potere che si rifiutano di cambiare

0
135

Romano Prodi è stato una figura emblematica della politica italiana ed europea. Ex presidente del Consiglio dei Ministri e presidente della Commissione Europea, era sempre accompagnato dalla moglie, Flavia Franzoni, la cui presenza pacata ne equilibrava la figura pubblica. Dalla sua scomparsa nel 2022, Prodi appare spesso solo, con il corpo presente ma un disagio emotivo visibile, soprattutto di fronte a certe espressioni della politica attuale — come la gestione di Giorgia Meloni. Nulla da rimproverare nella differenza di idee: è la base della democrazia. Ma in lui si percepisce un fastidio più profondo. Quasi viscerale.

Questo disagio si è manifestato con particolare evidenza durante l’evento “Libri Come 2025 – Festa del libro e della lettura” a Roma. Nei giorni precedenti si era tenuta una manifestazione politica in una piazza romana, con la partecipazione di numerose figure dell’intellettualità di sinistra. Si scoprirà poi che la presenza di alcuni di loro è stata retribuita dal sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, fatto che ha alimentato ulteriori polemiche. In questo contesto fortemente simbolico, è stata distribuita gratuitamente ai partecipanti una copia del Manifesto di Ventotene.

Questo manifesto, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi — entrambi antifascisti detenuti sull’isola di Ventotene — è uno dei documenti fondativi del progetto europeo. Un testo che proponeva, in pieno conflitto mondiale, un’Europa unita, pacifica e sovranazionale. Spinelli, militante socialista, spingeva ancora oltre, con una critica radicale al concetto classico di proprietà privata.

Oggi, quello stesso manifesto è diventato simbolo di controversia. In un contesto in cui i movimenti okupa, le tensioni sull’abitazione e la proprietà privata alimentano dibattiti anche nel Parlamento Europeo con qualche parlamentare che segue questa linea come l’taliana Salis,  la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha reagito con forza. Di fronte alla distribuzione massiva del Manifesto di Ventotene, ha dichiarato:

«Non so che Europa vogliate voi. Questa Europa io non la voglio.»

Un colpo al cuore culturale della sinistra italiana, che ancora si riconosce nei valori di Spinelli. Da lì, il Manifesto è diventato oggetto di analisi, dibattito, reinterpretazione.

In questo clima — storico, simbolico, teso — Prodi viene interrogato dalla giornalista Lavinia Orefici, di Quarta Repubblica. Lei, con tono fermo ma rispettoso, gli chiede cosa pensi della frase evidenziata nel Manifesto. Prodi, invece di rispondere, allunga la mano e le tira una ciocca di capelli.

In quel momento nessuno dice nulla. I presenti negano il gesto; il primo a negarlo è Prodi stesso. I media minimizzano. Poi appare il video. Le immagini sono chiare: un uomo anziano, potente, in un contesto culturale, di fronte a una giovane donna che fa il suo lavoro, risponde con un gesto fisico invasivo e sprezzante. Si attiva allora lo scudo: “Ha 84 anni”, “Era un gesto affettuoso”, “Non esageriamo”. Si fa appello alla sua carriera, al suo dolore personale, al suo distacco emotivo. Si rende invisibile ciò che ha fatto, per proteggere ciò che rappresenta.

Il gesto di Prodi non è stato solo un atto imprudente; è stato un simbolo. Il simbolo di un uomo cresciuto in una cultura in cui il potere si esercitava con la presenza, il gesto, la parola, l’occupazione dello spazio. Oggi, di fronte a una donna giovane che lo interpella, il gesto che gli sorge non è una risposta argomentata, ma un’invasione fisica lieve, ma significativa. Come se le parole non bastassero più, come se il pensiero si disgregasse davanti all’impossibilità di controllare la scena. Si potrebbe pensare che sia solo un gesto d’altri tempi. Ma le italiane, in silenzio, osservano ciò che conoscono bene già dentro casa.

E per disilluderci ulteriormente e capire che non si tratta di un problema di un’altra generazione, ma attualissimo, basta guardare l’Italia di oggi. Ieri a Messina, Stefano, un giovane di 27 anni, ha ucciso Sara, una ragazza di 22 anni che non lo voleva. Frequentavano entrambi un corso universitario. Stefano la corteggiava da due anni, Sara lo respingeva. Nell’ultimo messaggio all’amica, Sara scrive: «Dove sei? Sono con il pazzo che mi segue». Il «pazzo» la segue e le taglia la gola. La uccide davanti all’ennesimo rifiuto, la uccide in pieno spazio pubblico, come se non solo lei, ma tutta la società dovesse saperlo: “Se non è mia, non sarà di nessuno”. Poi fugge. Ora è in carcere. Le telecamere, sempre loro, ci racconteranno ogni dettaglio.

E più lontano ancora, in una commissione parlamentare, un parlamentare peruviano sostiene che le donne non partecipano alle scienze esatte per una presunta «condizione biologica». Non è violenza fisica, non è omicidio, ma è comunque un tentativo di chiudere la porta con il discorso, di ristabilire limiti attraverso la pseudoscienza. Le elimina intellettualmente, dall’alto del proprio ruolo.

La linea è chiara. Una certa visione del mondo vacilla. Una «scorza di potenza» maschile cerca di mantenere la forma mentre è già vuota dentro. Un pensiero che rispondeva a una logica sola, a una gerarchia sola, a un solo modo di decidere, comincia a mostrare crepe. E in quelle crepe emergono altri modi di vedere, organizzare, decidere… molti dei quali femminili o provenienti dal femminile.

E quel «qualcosa» che sfugge loro di mano — quell’intuizione, quello sguardo non lineare, quell’ascolto che non è sottomissione — non può essere dominato. Non si lascia incasellare in leggi, protocolli o manuali, tantomeno nelle «forme».

Per questo, quando una donna fa una domanda, disturba. Quando decide, disarticola. Quando crea, sposta.

Non si tratta di una guerra tra generi. Si tratta di riconoscere che c’è un pensiero che si sta dissolvendo, e un altro che — anche se ancora senza nome — sta emergendo.

E in questo passaggio, ogni gesto, ogni parola, ogni morte, ogni silenzio… conta.

E quando quel pensiero maschile — abituato alla linearità, al dominio, alla previsione — si disarticola, compare l’impulso a imporre. Quando l’argomento non basta, si alza la voce. Quando la parola non domina, si ricorre al corpo. Quando la presenza non è sufficiente, si ricorre al sangue.

Così, Stefano in Italia — incapace di accettare un rifiuto durato due anni da parte di Sara, 22 anni — la insegue, la molesta, e quando il suo desiderio non trova risposta, le taglia la gola in piena strada, sotto gli occhi di tutti, come un atto di «rivendicazione finale». Non c’è più ragione né controllo. Solo furia. Solo azione. Solo morte.

Su un altro piano, con un’altra maschera, un congresso del Perù si alza e proclama: «Non esiste una condizione biologica che incentivi le donne a partecipare a certe scienze.»

Non uccide, ma nega. Non molesta con il corpo, ma con la teoria. Difende la superiorità di un pensiero che non trova più fondamento e, invece di accettarne il declino, incolpa la natura. Come se il problema fosse nel design femminile e non nel modello maschile.

Uno uccide perché non tollera di essere escluso dal desiderio. L’altro squalifica perché non tollera che ci siano donne più lucide, più rigorose, più capaci di organizzare il mondo da un altro punto di vista. Entrambi cercano la stessa cosa: ristabilire un potere perduto.

E intanto le donne continuano. Fanno scienza, pongono domande, creano, guidano, amano con libertà, rifiutano con chiarezza. Disarticolano non solo un modello di pensiero, ma un’intera architettura emotiva del potere.

Ecco perché non è esagerato soffermarsi su un gesto come quello di Prodi, su una frase come quella di Bustamante, su una scena come l’omicidio di Sara. Non sono fatti isolati. Sono segnali di una transizione.

Una transizione che non sarà indolore, perché il potere non si cede facilmente. Ma che — ci piaccia o no — è già cominciata.