Quando il troppo storpia per Melissa de Teffé

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Che Melania Trump sia una bella donna, non c’è dubbio, che abbia buon gusto, dipende dal nostro modo di vedere la moda, ma sicuramente si è sempre presentata, accollata, riservata, in ordine e mai volgare. In un mondo fatto di starlette, e con l’ultima tappeto rosso ai Grammy Awards, possiamo pure metterci le mani nei capelli.

Non volevo scrivere riguardo allo stile della First Lady che trovo impeccabile se non sempre di mio gusto, ma piuttosto dell’atteggiamento assolutamente ingiusto e scorretto della stampa nel comporre storie che sono distorte pur di distorcere.

Mi riferisco a Vogue. Tutti conosciamo Vogue e quasi tutti hanno visto “il diavolo veste Prada”, dove l’editore di questa rivista, Anna Winthertur, o il diavolo, viene raccontata come la malefica “boss” super severa,  ma riscattata alla fine perchè anche lei una volta era una ragazza ingenua.

L’articolo appena uscito su Vogue riguardo alla First Lady, dire che è dissacrante è poco. Viene fatta a pezzi in tutti i modi possibili, appigliandosi al discorso moda. La giornalista, se così dobbiamo chiamarla, è un’assoluta nessuno, che non conosce il mondo moda e che è stata usata come sicario d’immagine. Il pezzo, scritto da Hannah Jackson, descriveva l’aspetto di Melania come quello di una «prestigiatore o illusionista freelance» piuttosto che di un funzionario al servizio della nazione, pronta per partecipare a un episodio  di “The Apprentice” (“il Concorso” in Italia – dove appunto partecipò Donald Trump come businessman che selezionava i concorrenti di Start up).   Secondo la Jackson la scelta dell’abbigliamento di Melania – un bellissimo smoking di Dolce & Gabbana – le conferiva appunto quest’aspetto da «maga freelance».

Questa critica ha riacceso le note tensioni tra Melania Trump e l’industria della moda, in particolare con la direttrice di Vogue, Anna Wintour. I sostenitori di Melania, tra cui il suo amico Bill White, hanno espresso il loro disappunto, definendo Vogue «Condé Nasty»  (Condénast, il Cattivo) e annullando l’abbonamento in segno di protesta.

La ventiseienne, autrice di queste parole al vetriolo, era un’insegnante di danza (chissà forse di salsa?) che un paio d’anni fa, dopo aver svuotato il salvadanaio si è trasferita dalla California o giù di lì, a Brooklin ed è stata miracolosamente assunta da Vogue un anno fa. Confesso che molti di noi che scriviamo vorremmo sapere il segreto di questa “magica” abilità nel trovare un posto di lavoro così prestigioso, senza alcun background. Si firma così: scrittrice che si occupa di cultura, moda, benessere, sesso e relazioni.

Durante i primi quattro anni della presidenza di Donald Trump, l’industria della moda soprattutto quella locale, si è rifiutata di vestire la First Lady. Stilisti di fama internazionale, come Marc Jacobs, Zac Posen e Tom Ford, hanno pubblicamente rifiutato, citando divergenze politiche e convinzioni personali. La stessa Anna Wintour, direttrice di Vogue, le ha negato la copertina della nota rivista, un privilegio sempre esteso a tutte le first ladies. Questo rifiuto, da parte di molti all’interno dell’industria della moda, è stato interpretato come un segno di opposizione alle politiche del marito e di distanza da una figura pubblica che ha suscitato ampie discussioni. Il divario tra Melania Trump e il mondo della moda è diventato uno degli aspetti distintivi del suo mandato, con molti designer e leader del settore che hanno preferito mantenere una posizione di riservatezza o dissenso nei suoi confronti. Quando conoscenti e amici americani mi hanno chiesto quale fosse la posizione dei più famosi stilisti al mondo, che sono italiani, mi è stato facile replicare, che sicuramente l’avrebbero vestita, non curanti delle politiche in voga al momento. Armani, infatti, intervistato allora da un giornalista dell’Ansa, disse: ”Ma con piacere vestirei Melania, se me lo chiedesse”. Grazie Giorgio e grazie DG.

Sicuramente pochi sanno che questo tipo di giornalismo detto giornalismo giallo, o yellow journalism, ha una sua tradizione. Questo reporting sensazionalistico, esagerato o addirittura inventato, utilizzato per attirare l’attenzione e aumentare le vendite, divenne noto  grazie alla rivalità tra Joseph Pulitzer e William Randolph Hearst alla fine del XIX secolo, in particolare durante la Guerra ispano-americana.

Alla fine del 1800, il New York World di Pulitzer e il New York Journal di Hearst, erano quotidiani celebri per i loro titoli sensazionalistici, storie scandalistiche e illustrazioni accattivanti, spesso a discapito della verità. Il termine «giornalismo giallo» nacque dal fumetto Yellow Kid, che appariva in entrambi i giornali, e veniva inizialmente usato in modo dispregiativo per descrivere il loro stile di reporting esagerato e drammatico.  Nel 1898, con l’inizio della Guerra ispano-americana, il giornalismo giallo raggiunse il suo apice. I due giornali pubblicarono storie infiammatorie e spesso esagerate riguardo alle azioni della Spagna a Cuba, scatenando l’indignazione del pubblico americano e contribuendo a indirizzare l’opinione pubblica verso la guerra. La copertura sensazionalistica dei giornali di Pulitzer e Hearst, tra cui il famoso titolo «Ricordatevi del Maine!» (in riferimento al naufragio della corazzata Maine nel porto dell’Avana), fu ampiamente criticata per aver spinto gli Stati Uniti verso il conflitto.

Dopo la guerra, questo giornalismo cominciò a perdere influenza, e i giornali iniziarono a pubblicare articoli più responsabili. Tuttavia, l’eredità del sensazionalismo mediatico rimase una parte importante della storia del giornalismo americano.

L’America sicuramente esprime dicotomie importanti che oscillano dal puritanesimo femminile al me too movement, e infine all’incoraggiamento hollywoodiano a svestirsi sempre di più fino ad essere nudi come Bianca Censori per i Grammy Awards. La First Lady nel suo silenzioso apparire, ha certamente dato un esempio di compostezza e classe.

Sono trascorse tre settimane dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, e se i suoi decreti presidenziali sono stati un uragano impetuoso, anche Melania è nell’occhio del ciclone, ma non quello maritale, bensì quello della stampa pro Kamala, che non ha dimenticato quel fair play dove i gentlemen ammettono la sconfitta con grazia e rispetto. Speriamo che la stampa torni a fare il suo mestiere presto. Ne guadagneremmo tutti.