Ucraina/Draghi, Zuppi, Riccardi, Berlusconi – Serbia e Kosovo

0
385

Per quanto riguarda la guerra in Ucraina la parola ‘armi’ sovrasta ormai largamente la parola ‘pace’: un discorso di Mario Draghi. Solo il Papa cerca caparbiamente vie di pace, bussando a tutte le porte per ascoltare e per il momento agire in ambito umanitario. La ‘missione’ del cardinale Zuppi, le considerazioni di Andrea Riccardi. Prossima visita a Mosca? Su Serbia/Kossovo alcune riflessioni di Renato Farina

Armi, armi, sempre più armi. E un giorno dopo l’altro sempre più morti, feriti, orfani, sfollati, profughi, devastazione della psiche, distruzioni materiali e di sogni esistenziali di ogni genere.  Se poi gli arsenali si svuotano, ci pensa il parlamento europeo – è accaduto il primo giugno scorso – ad approvare un piano speciale (proposto dalla Commissione europea) di produzione di un milione di munizioni l’anno perché all’Ucraina le munizioni non manchino mai e nemmeno manchino agli Stati membri dell’Unione. Si incrementa così anche lo scandalo dell’invio di aiuti militari, che presto potrebbe conoscere un ulteriore e ancor più drammatico sviluppo: il coinvolgimento diretto sul campo di vere e proprie unità militari di Paesi membri della NATO (non solo di piccoli gruppi di sabotatori). E’ una spirale che appare quasi inarrestabile, con governi nazionali che sembrano mosche intrappolate nella ragnatela dei poteri sovranazionali e popoli anestetizzati in parte consistente da una propaganda bellicista anche mediatica senza pari.  

UN DISCORSO ‘AMERICANO’ DI MARIO DRAGHI

Un esempio significativo di tale pressione è fornito dal discorso che l’ex-presidente del Consiglio Mario Draghi ha tenuto il 7 giugno scorso a Boston, presso il Massachusetts Institute of Technology (in occasione del conferimento di un premio alla sua persona). Vale la pena di leggerlo, soprattutto nel brano che vi proponiamo (traduzione di Gianfranco Polillo per Formiche.net ), in cui emerge con forza una visione manichea oltreché sbrigativa (oggettivamente molto controversa) e vagamente ricattatoria della storia, considerata come terreno di scontro tra quelli che l’Europa di cui Draghi si fa portavoce considera ‘buoni’ e i cosiddetti ‘cattivi’.

Proprio quando pensavamo di aver vinto la guerra contro Covid-19, un nuovo conflitto è venuto a minacciare la nostra prosperità e sicurezza collettive: l’invasione brutale della Russia dell’Ucraina. Questo non è stato un atto imprevedibile di follia. È stato il successivo passo premeditato nell’agenda del presidente Putin e un colpo determinato all’Ue.

I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica. Sono i valori emersi dopo il massacro della Seconda guerra mondiale. Ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i suoi alleati che garantire che l’Ucraina vinca questa guerra.

Accettare una vittoria russa o un pareggio confuso indebolirebbe fatalmente altri Stati confinanti e invierebbe un messaggio agli autocrati che l’Ue è pronta a rinunciare a ciò per cui si batte, a ciò che è. Inoltre, segnalerebbe ai nostri partner orientali che il nostro impegno per la loro libertà e indipendenza – un pilastro della nostra politica estera – non è così saldo come sembra. In breve, sarebbe un colpo esistenziale per l’Ue.

Vincere questa guerra per l’Europa significa avere una pace stabile, e oggi questa prospettiva sembra difficile. L’invasione della Russia fa parte di una strategia delirante a lungo termine del presidente Putin: recuperare l’influenza passata dell’Unione Sovietica e l’esistenza del suo governo è ora diventata intimamente legata al suo successo.

Ci vorrebbe un cambiamento politico interno a Mosca perché la Russia abbandoni i suoi obiettivi, ma non c’è segno che un tale cambiamento avverrà. Le conseguenze geopolitiche di un conflitto prolungato al confine orientale dell’Europa sono molto significative. Più rapidamente ci rendiamo conto di esse, meglio saremo preparati.

In primo luogo, l’Ue deve essere disposta a rafforzare le sue capacità di difesa. Questo è essenziale per aiutare l’Ucraina per tutto il tempo necessario e per fornire una deterrenza significativa contro la Russia. In secondo luogo, dobbiamo essere pronti a intraprendere un percorso con l’Ucraina che porti alla sua adesione alla Nato.

L’alternativa è inviare sempre più armi e giungere ad un accordo tra l’Ucraina e tutti i suoi alleati di questa guerra che contempli elementi di difesa reciproca che ricordano il Trattato che collega gli Stati Uniti alla Corea del Sud. Ma un tale accordo sarebbe difficile da raggiungere e difficile da attuare.

In terzo luogo, dobbiamo prepararci a un periodo prolungato in cui l’economia globale si comporterà molto diversamente dal passato più recente. Ed è qui che gli spostamenti geopolitici interagiscono con le dinamiche dell’inflazione. La guerra in Ucraina ha contribuito all’aumento delle pressioni inflazionistiche a breve termine, ma è anche probabile che scateni cambiamenti duraturi da cui derivi un’alta inflazione in futuro.

SOLO IL PAPA CERCA SINCERAMENTE, CON TENACIA, LA PACE – LA ‘MISSIONE’ DEL CARDINALE ZUPPI

C’è ancora qualcuno che prefiguri sinceramente – e lo persegua con tutte le sue forze – un percorso di pace e, prima, di cessate il fuoco? Bisogna riconoscerlo: a livello mondiale solo il Papa lo fa. Certo non ha divisioni né flotte aere, marine, missilistiche da impegnare sul campo. Solo armi diplomatiche, in virtù delle quali cerca di ascoltare e convincere a tutto campo, oltre che inviare aiuti umanitari e farsi garante di scambi di prigionieri (vedi anche in questo stesso sito «Papa Francesco e la questione ucraina dal 2013 in poi»).

Il 5 e il 6 giugno il cardinale Matteo Maria Zuppi, inviato in ‘missione’ da papa Francesco, è stato in Ucraina per vedere, incontrare ed ascoltare (colloqui tra l’altro con Zelensky e diverse personalità religiose). Domenica 11 giugno, intervistato dalla nota Repubblica nell’ambito della tradizionale festa aziendale di Bologna, alla domanda “C’è spazio per la pace in Ucraina?” ha risposto: “Direi per forza, ci dobbiamo credere. (…) Il nodo è pace e giustizia. Non ci può essere l’una senza l’altra”. Il presidente della Cei prevede di andare anche a Mosca? Questa la risposta: “Non abbiamo ancora iniziato a lavorare, ma direi che i segnali sono di attenzione e di attesa. Non il presidente Putin, ma il governo russo ha manifestato interesse (NdR: un po’ curiosa tale distinzione e certamente prenderemo contatto con la Chiesa russa  (NdR: quel ‘certamente’ segnala contatti mai interrotti). I segnali portano a dire che ci sarà accoglienza sia da parte del governo che della Chiesa ortodossa”.

La ‘missione’ del cardinale Zuppi, secondo il mandato ricevuto, doveva svolgersi “in accordo con la Segreteria di Stato”. E’ così che, appena rientrato in Italia, Zuppi ha informato il cardinale Parolin, che “parlerà con il Papa per riferire sulla missione a Kiev e poi studiare il viaggio a Mosca”.

Collaborazione – voluta dal Papa – dunque tra la diplomazia ufficiale (Segreteria di Stato) e quella parallela (Comunità di Sant’Egidio, di cui Zuppi è uno degli esponenti).

UN EDITORIALE DI ANDREA RICCARDI SU AVVENIRE

Tale collaborazione, inedita nelle dimensioni, trova riflessi interessanti su Avvenire, che come noto – soprattutto sui temi della pace, dei rapporti con la Cina e dell’immigrazione – è molto aperto ai contributo della comunità trasteverina. Ad esempio martedì 6 giugno 2023, l’editoriale sulla guerra in Ucraina è firmato da Agostino Giovagnoli (altro esponente santegidino). Vi si legge tra l’altro: “Solo papa Francesco sembra voler davvero accelerare, come mostra la missione voluta dal Pontefice a dispetto di critiche, scetticismi, opposizioni” (NdR: di varia provenienza, anche tra i diplomatici vaticani c’era chi riteneva ‘impossibile’ oggi una tale ‘missione’).

Molto interessante l’editoriale di domenica 11 giugno sull’argomento, stavolta per la penna di Andrea Riccardi, lo storico fondatore della comunità. Sotto il titolo “Una soluzione in altro modo” (con l’occhiello già molto significativo: “Perché bussare a tutte le porte”), Riccardi evoca “uno scenario internazionale che, in poco meno di 500 giorni, ha quasi dimenticato la pace come obiettivo della politica, ma anche come sbocco dei conflitti” e annota: “In questo orizzonte s’inquadra la missione Zuppi, cominciata non a caso a Kiev, accompagnata in Italia da un po’ di scetticismo di qualche ambiente (pure cattolico)”. Il che è successo perché “si è troppo disabituati e rinunciatati a pensare e costruire vie di pace (si veda la tragedia siriana), così che si parla di fallimento se la pace non viene con un solo incontro o una visita.”. Del resto, puntualizza Riccardi, “Zuppi non era latore di un piano di pace ma di un messaggio di Francesco al presidente ucraino Zelensky”. Non c’è da stupirsi dato che “l’ascolto e la presa di contatto con la realtà fanno parte della missione del cardinale”. Perciò “la missione non è una ‘falsificazione della realtà’, come afferma l’americano George Weigel, che addirittura minerebbe la determinazione occidentale”. Anche Benedetto XV “allo stesso modo, nel 1917, fu accusato di disfattismo perché parlava di pace”. In ogni caso “cuore degli incontri di Kiev sono state le questioni umanitarie, tutt’altro che secondarie per gli ucraini, di cui la Santa Sede si fa carico”.

Il fondatore di Sant’Egidio tocca poi il nodo russo: Sembra prevista una prossima visita del cardinale a Mosca (vedi anche dichiarazioni di Zuppi a ‘Repubblica’)che non è una navetta tra due capitali bensì il prosieguo di una missione di ascolto e di incontro”. Ribadisce poi Riccardi che la ‘missione’ di Zuppi “non è una mediazione di pace. Per farla ci vuole la richiesta di ambo le parti”. Però “la Santa Sede non si rassegna alla guerra (…) In questo senso il Papa parla e bussa a tutte le porte. E continuerà a farlo (…) sostenuto da una parte importante dell’opinione pubblica e dalla gente comune e dai cristiani che pregano per la pace”.

Da notare, conclude Riccardi, l’attenzione governativa ucraina (al di là di qualche espressione di ambienti di sicurezza) alla missione Zuppi in un Paese lanciato in una sfida militare che ne tocca la sopravvivenza”.

OLEKSIY DANILOV E SILVIO BERLUSCONI

Per quanto riguarda l’accenno riccardiano agli “ambienti di sicurezza” ucraini, il riferimento è verosimilmente all’intervista a Oleksiy Danilov (segreterio del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale, stretto collaboratore di Zelensky) apparsa il 4 giugno 2023 sul ‘Corriere della Sera’Nell’intervista Danilov tra l’altro chiede “il totale isolamento” della Russia, con “blocco di ogni transazione e persona”, notando assai sinistramente che “molti russi passeggiano ancora per VeneziaFirenze, Roma”. Infine esplode in accuse gravissime: “Volete che ci arrendiamo? So che ci sono politici italiani che continuano a dialogare col diavolo Putin. In Italia avete anche la strana posizione della Chiesa. Che Chiesa è quella che preferisce gli assassini di bambini? Se la Chiesa ritiene giusto accettare le condizioni di Satana, allora capisco, ma non credo”.

Berlusconi (anche Salvini) e la Chiesa nel mirino di Danilov. Immaginiamo che Danilov non si sarà dispiaciuto più di quel tanto per la morte di Berlusconi. Il quale, invece – prescindendo da ogni considerazione su altri aspetti della sua vulcanica e poliedrica personalità – per noi ha dimostrato una statura molto superiore ai suoi successori in materia di politica estera, avendo intuito con lungimiranza la necessità e i benefici per l’interesse nazionale ed europeo di rapporti stretti con il Nordafrica (anche con Gheddafi), con la Turchia e con una Russia che per tanti motivi (storici, culturali, economici) deve trovare posto in quel continente a due polmoni sognato da Giovanni Paolo II. Ci ostiniamo a credere che, se Berlusconi non fosse stato costretto alle dimissioni dal ‘golpe bianco’ di Bruxelles di fine 2011, avrebbe potuto continuare a esercitare su Putin – insieme con Angela Merkel – un influsso moderatore tale da evitare che il solco tra NATO/UE/Stati Uniti da una parte e Russia dall’altra si approfondisse sempre più tanto da trasformarsi – com’è successo – in immane tragedia.

SERBIA E KOSOVO: UNA SITUAZIONE POTENZIALMENTE ESPLOSIVA – ALCUNE RIFLESSIONI DI RENATO FARINA

Che i Balcani siano da sempre una polveriera per l’Europa è purtroppo scontato. Per restare anche soltanto agli ultimi trent’anni la penisola ha conosciuto lutti e distruzioni soprattutto in quella che oggi è la Bosnia-Erzegovina. Non si possono però dimenticare i bombardamenti subiti da Belgrado nel contesto di una sorta di ‘operazione speciale’ della NATO (con partecipazione attiva dell’Italia del governo D’Alema, indubbiamente di sinistra bellicista… e l’indagine giudiziaria pubblicizzata negli scorsi giorni conferma la vocazione di piazzista di armi dell’ex-presidente del Consiglio) volta a umiliare la Serbia, favorendo la costituzione di uno Stato nuovo, il Kosovo. E’ proprio in questa zona dei Balcani che nei mesi scorsi si è riaccesa con forza la contrapposizione tra serbi (NdR: ricordiamo che la Serbia – con i suoi antichi e preziosi monasteri ortodossi – è nata in quello che oggi si chiama Kosovo) e kosovari, fino al coinvolgimento diretto di soldati facenti parte della missione NATO, chiamati a evitare che la tensione tra le parti sfoci in scontri armati dalle conseguenze imprevedibili.

Ne Il Sussidiario del 30 maggio 2023 è apparso un commento di Renato Farina su quanto sta avvenendo tra Serbia e Kosovo. Ne proponiamo ampi stralci, che ci sembrano molto utili per comprendere, oltre che i fatti, anche le sfide geopolitiche in gioco.

. Venticinque militari della Nato, di cui 14 italiani, feriti, alcuni gravemente, dai manifestanti serbi nel Nord del Kosovo. Che ci facevano lì i “nostri”? Ce lo siamo (quasi) tutti dimenticato. Hanno il compito, dal 1999, di proteggere la minoranza serba (120mila persone) di uno Stato autoproclamatosi tale nel 2008, e abitato da 1 milione e 750mila albanesi. Quello che adesso capita è la conseguenza di una guerra sbagliata (lo sono tutte, ma quella fu particolarmente stupida e per noi europei continentali a danno di noi stessi) voluta dagli anglosassoni e in particolare dalla presidenza Clinton per umiliare la Jugoslavia (allora si chiamava ancora così) e creare uno Stato che fosse base logistica di mafia, droga e terrorismo nel cuore dell’Europa. Accadde nella primavera del 1999.

I 120mila serbi sono quelli che restano dopo che mezzo milione di loro è stato costretto ad andarsene. Devono essere scortati per andare al lavoro, le reliquie religiose della tradizione ortodossa sono oggetto di sfregio. Nello scorso ottobre i sindaci delle quattro cittadine del Nord a maggioranza slava si sono dimessi per protesta, causa l’impossibilità di migliorare la condizione di vita dei loro concittadini. Il governo di Pristina ha indetto nuove elezioni boicottate dai serbi, e poco più del 10 per cento ha votato sindaci albanesi respinti furiosamente come illegittimi, ‘usurpatori’ dalla maggioranza serba della popolazione. Da qui l’assalto a un municipio, l’intervento di pattuglie kosovare che attaccate hanno sparato e poi chiamato la Nato in soccorso.

Risultato? L’interpretazione della folla e del governo di Belgrado è che la Nato è schierata contro di loro, al servizio di chi li vuole cacciare. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, dal Kenia dov’era in visita, ha espresso esattamente questo concetto, attizzando fuochi anti-occidentali. Antony Blinken, suo omologo americano, ha cercato di parare il colpo facendo una ramanzina a Pristina incolpandola di azioni unilaterali, mostrando così che gli Usa non vogliono aggiungere alla guerra in Ucraina un’altra nei Balcani, che vedrebbe la Serbia sostenuta da Mosca scontrarsi con il Kosovo, appoggiato da Albania, Turchia e Macedonia, e presumibilmente da Washington, che però non ha bisogno di altre rogne.

Insomma. Quello che accadendo in Kosovo è – dal punto di vista geopolitico – una sorta di guerra fredda per procura tra Mosca e Washington. La Russia sostiene la Serbia, gli Stati Uniti il Kosovo. È dal 1999 che questa recita va avanti. Quell’anno la Nato bombardò Belgrado e costrinse alla resa Milosevic, usando la repressione serba nella provincia a prevalente etnia albanese come casus belli.

Ora Mosca soffia sull’orgoglio slavo-ortodosso (Belgrado non partecipa alle sanzioni contro la Russia, che la ricambia con un gasdotto), Washington preferisce che il Kosovo, fornitissimo di metalli rari, in prospettiva assai più importanti degli idrocarburi, resti nella sua orbita, e rafforzi la sua indipendenza. L’Europa come sempre sta a guardare. Dei 27 solo Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro si sono rifiutati di riconoscere il nuovo Stato, che avrebbe creato precedenti per i secessionismi delle minoranze catalane e basche, ungheresi, turche, macedoni eccetera. Il diritto internazionale, come si vede, è plasmato dai rapporti di forza. Come ci insegna l’incredibile differenza di trattamento riservata dall’Occidente a uno Stato musulmano autodichiaratosi indipendente e subito riconosciuto; e il rifiuto di difendere il diritto all’autodeterminazione degli armeni del Nagorno-Karabakh, purtroppo per loro, cristiani.