Molti trovano il successo nella vita seguendo una linea retta di benessere che li accompagna fino alla fine dei loro giorni. Tuttavia, altri, pur raggiungendo quella comodità, inseguono una silenziosa ricerca interiore, percorrendo un cammino circolare. Coloro che hanno la grazia di trovare ciò che cercano veramente lo riconoscono subito; un entusiasmo travolgente li pervade. Arrivano a comprendere che la felicità va oltre il successo e il benessere materiale; scoprono una profonda pienezza, la certezza di avere una missione da compiere. Questa è la cosa più vicina alla vera felicità.
Nel 2017, durante una vacanza in famiglia in Sudafrica, Michele Sofisti trovò in uno dei lodge dove alloggiava un volantino della Global Conservation Corps (GCC). Incuriosito dalle informazioni, contattò l’indirizzo che vi era indicato, quello di Matt Lindenberg, Direttore Esecutivo dell’organizzazione. Dopo pochi giorni, Lindenberg rispose, e ciò che era iniziato come una conversazione casuale si trasformò in una profonda connessione tra due visioni del mondo: Matt, un conservazionista impegnato, e Michele, un geologo con esperienza nella gestione di grandi marchi, che vedeva ora una nuova opportunità di mettere la sua esperienza al servizio di una causa più grande.
Nel settembre dello stesso anno, si incontrarono a New York, e quell’incontro segnò un punto di svolta nella vita di Sofisti. Decise di sostenere attivamente il lavoro di GCC, apportando la sua visione imprenditoriale per aiutare l’organizzazione a diventare più efficiente, pragmatica e capace di raggiungere un pubblico più vasto. Da allora, Sofisti è stato un fervente sostenitore della conservazione e della sostenibilità, integrando queste cause nella sua vita e carriera.
Nonostante il suo successo nel mondo imprenditoriale, avendo gestito marchi di lusso come Ferrari, Omega, Swatch, e Gucci, questo incontro in Africa accese in Sofisti qualcosa di diverso. L’esperienza lo portò a ripensare il suo scopo e ad intraprendere una nuova fase della sua vita, questa volta incentrata sulla protezione dell’ambiente e sulla conservazione della fauna selvatica. Ciò che era iniziato come un percorso imprenditoriale di successo si trasformò in un impegno vitale verso la sostenibilità.
La strada era aperta, e doveva essere percorsa.
Furono due sorelle, originarie dello Zambia, Gwen Jones e Denise Jones Madiro, a ricevere la fiducia degli imprenditori di Parma grazie alla loro pratica rigenerativa per la produzione agricola, che aprì la strada a un’economia sostenibile per le comunità locali del loro paese: il caffè e il miele.
Tra i soci fondatori si trovano Michele Sofisti, che già conosciamo, e Andrea Chiesi. Andrea Chiesi, originario di Parma, appartiene alla famiglia fondatrice di Chiesi Farmaceutici, una delle aziende farmaceutiche più grandi d’Italia. Nel corso della sua carriera, ha guidato progetti di ricerca e sviluppo nel settore farmaceutico, ma la sua visione è sempre stata orientata all’innovazione sociale e all’impatto positivo nelle comunità. La sua partecipazione era una naturale estensione dei suoi valori aziendali e del suo impegno per la conservazione dell’ambiente.
Chiesi ci racconta che la prima idea che gli fu presentata riguardava la produzione di miele, utilizzata come strumento di emancipazione sociale per le donne nelle comunità rurali, dove l’economia non è sviluppata. Secondo Andrea Chiesi, la problematica centrale è l’interazione con l’ecosistema. La necessità di creare un’economia basata su prodotti naturali offre un’importante alternativa per contrastare la deforestazione, la caccia illegale e l’uccisione degli animali, permettendo di migliorare l’ecosistema con tecniche moderne e prodotti organici e biologici, sostenibili e tracciabili, creando così una catena produttiva completa.
Chiesi spiega che loro mettono in contatto i coltivatori con i clienti finanziari: «Ci sono migliaia di coltivatori, la difficoltà è riuscire a connetterli con i compratori seguendo una modalità diversa da quella abituale». Inoltre, li aiutano fornendo competenze e formazione, spiegando loro le tecniche dell’agricoltura rigenerativa. «Il problema è che questa agricoltura richiede prodotti organici, fertilizzanti naturali e ha un rendimento inferiore, quindi costa di più e il mercato non ti premia, non ti pagano di più».
Ci racconta che da un anno e mezzo sono dedicati alla loro azienda di caffè, presenti in quindici paesi, e ribadisce che l’offerta di caffè e cacao è molto forte. Con Nzatu faranno il loro ingresso negli Stati Uniti, apriranno una filiale in Asia, a Hong Kong, e non operano solo in Europa.
Riguardo alla partecipazione dei giovani nelle attività di raccolta del caffè, ci spiega: «Dipende, perché i paesi africani sono tanti, alcuni non sono molto diversi da quelli che conosciamo, dove i giovani non hanno voglia di fare certi lavori. Il tasso di urbanizzazione dei campi africani è estremamente elevato». Non possiamo negarlo: ci troviamo di fronte a un problema generazionale.
Inoltre, ci spiega che, di fronte a questo serio problema, si è fatto un’idea: «Esistono coltivatori di caffè professionisti, grandi, che si sono meccanizzati, sono capaci e sanno gestire le attrezzature, ce ne sono un buon numero. Poi ci sono quelli che devono ancora imparare, e qui possiamo avviare l’attività da zero. Forse per le donne, come è accaduto con il caffè, da anni le donne coltivano il caffè in una certa regione, hanno imparato a gestire la loro attività per non dipendere dai mariti. Coloro che sono a metà strada possono apprendere riguardo agli scarti del prodotto, agli ecosistemi».
D’altra parte, il mercato esige la tracciabilità, un punto delicato in cui il fornitore di caffè normale preferisce che non venga evidenziata la provenienza, ad esempio «che proviene dal Malawi, perché nel caso ci sia un’inondazione o una siccità, non lo compreranno più in Malawi, ma in Tanzania. Spiegare al cliente, a cui hai detto per vent’anni che il caffè del Malawi è il migliore al mondo, e poi proporgli quello della Tanzania, è una situazione complicata».
La terra non riposa in Africa, perché il caffè continua a produrre anno dopo anno. Dopo 3-4 anni la piantagione inizia a produrre. «Il problema è coltivarlo in modalità rigenerativa, in modo da non distruggere il terreno. La soluzione è duplice: da una parte, utilizzare piante più alte che proteggano il caffè dal sole, mantenendolo in ombra, ad esempio coprendolo con le piante di banano. Dall’altra parte, l’intercropping, ovvero la produzione simultanea di più colture nella stessa parcella».
Per quanto riguarda il prezzo, il caffè normale segue il prezzo internazionale. Sono le Specialty Coffee a fare la differenza. Scopriamo che Nzatu opera anche come consulente affinché i coltivatori soddisfino i requisiti di certificazione, facilitando così la vendita al cliente, «che desidera una cosa e non un’altra».
È stimolante ascoltare un manager di un’azienda farmaceutica affrontare gli ostacoli della vita produttiva africana, così come non può nascondere la sua grande soddisfazione nel vivere questa nuova fase della sua vita professionale. È evidente che Chiesi vede in Nzatu un’opportunità per rigenerare i terreni, migliorare le condizioni dei produttori e proteggere la biodiversità, tutto sotto un approccio di economia circolare e agricoltura rispettosa dell’ambiente. La sua visione imprenditoriale e il suo impegno per il benessere sociale lo rendono un pilastro fondamentale di questo progetto, dimostrando che il settore privato può svolgere un ruolo cruciale nella protezione ambientale e nello sviluppo sociale.
Un altro protagonista con cui Nzatu si è associata è Parma Artcafè, così nasce Njuki, caffè arabica dell’Uganda. Il suo nome significa «Miele«, non senza ragione, poiché producono caffè durante il periodo di raccolta dei chicchi e promuovono l’apicoltura durante i periodi di crescita della pianta del caffè. In questo modo, le comunità non smettono di lavorare. Inoltre, la formazione in apicoltura e nella coltivazione del caffè non viene mai trascurata.
Artcafè di Luca Montagna, esperti del gusto italiano, ha trasmesso questo gusto al mondo dell’espresso, una cultura che ha portato all’eccellenza, avendo ricevuto il riconoscimento di Parma come Città Creativa della Gastronomia dall’UNESCO. Parma è una delle nove città al mondo con questo titolo. Le altre otto sono: Belém in Brasile, Bergen in Norvegia, Burgos in Spagna, Denia in Spagna, Ensenada in Messico, Gaziantep in Turchia, Phuket in Thailandia e Tucson negli Stati Uniti.
Luca Montagna, direttore generale di Artcafè di Parma, spiega: «Artcafè si basa su valori come la qualità, l’eccellenza e l’artigianalità. Per questo ho riconosciuto immediatamente qualcosa di simile alla nostra filosofia nel progetto di Nzatu. Con il caffè Njuki presentiamo un prodotto che non solo soddisfa questi standard, ma rappresenta anche un modello di business sostenibile e responsabile. Come torrefattore, so bene quanto sia fondamentale il controllo dell’intera filiera produttiva. Ecco perché la nostra collaborazione con Nzatu ha un valore speciale: condividiamo l’impegno per la qualità del prodotto, ma anche per la sostenibilità sociale e ambientale».
Concludiamo la nostra intervista parlando con Michele Sofisti, residente a Neuchâtel in Svizzera, dove ci sono tre o quattro marchi che tostano il caffè che vendono in Svizzera, e Njuki sarà presto disponibile. Fanno parte dell’organizzazione creata dal governo svizzero, la “Sustainable Coffee Platform”, lanciata nel gennaio 2024. Michele non perde la speranza che in Svizzera si incoraggi la realizzazione di un progetto simile a Nzatu. Il suo legame con la terra è radicato nella sua laurea in Geologia e nei suoi primi anni di carriera. Anche se poi è passato al mondo del Fashion: automobili, orologi, non ha mai dimenticato la sua passione originaria. Sette anni fa ha iniziato la sua collaborazione con The Global Conservation, hanno prodotto un film, e Michele è Advisor di un’ONG con sede a Washington, www.resolve.ngo, dove ha conosciuto Nzatu grazie a Gwen Jones, sua collega Advisor.
Ha appreso del progetto delle due sorelle che sono cresciute in una comunità rurale e hanno studiato in Canada. Michele e Andrea hanno creato un Advisory Board e si sono associati a molte organizzazioni in Africa e in Europa, come la Regenerative Society Foundation, fondata da Andrea Illy e Jeffrey D. Sachs, premio Nobel per l’Economia. Così hanno dato vita a questo ecosistema in Africa, puntualizza Michele: «Non siamo andati lì per coltivare caffè o cacao, ci siamo trovati in mezzo al caffè», successivamente si sono associati a Luca Montagna di Artcafè: «Lui è il vero esperto di caffè, noi portiamo la parte rigenerativa, lui porta la capacità di fare il caffè».
Una sensibilità che li ha condotti a un’attività imprenditoriale. Gli chiediamo se la trovi adatta alla sua attività precedente o se sia una nuova fase, e lui risponde: «La mia fortuna è che sono nato come geologo, quindi diciamo che ho una base, ho ripreso a leggere più libri di geologia di quanti ne leggessi all’università». Aggiunge: «L’industria del lusso mi ha permesso di acquisire competenze specifiche che oggi utilizzo e utilizzo anche la rete di contatti che avevo creato», e ci fa un esempio: «A fine ottobre apriremo il Food Group Asia, lo faremo con una collega che 25 anni fa ho assunto alla Swatch e che oggi è libera; le ho parlato del progetto, le è piaciuto moltissimo, è una manager eccezionale, inizieremo insieme». Senza dubbio, nessuno va in pensione oggi, gli faccio notare, e lui assicura: «Almeno io, no». Un’ispirazione per i giovani? Ci dice: «Credo che sia importante fare le cose con passione. Ho sempre lavorato con passione, pur non essendo un esperto di orologi, sono diventato un appassionato di orologi. Ora, la passione è più radicata nel mio DNA».
Gli chiedo degli accordi firmati con i paesi, e lui puntualizza che i loro accordi «non sono con i paesi, ma con coloro che raccolgono il caffè, e la qualità è che non abbia chimica e che generi un impatto positivo per le comunità locali». E ci fa un esempio: «Il caffè che utilizziamo è robusta dell’Uganda, ha origine da un raccoglitore di caffè che lavora con 5.000 piccoli coltivatori, che fanno parte del Wild Life Conservation. Se vendiamo il loro caffè, una parte del guadagno andrà all’organizzazione».
Un altro caso che ci segnala: “Al centro della foto c’è Frank, la sua associazione si chiama Friends of Mothers, lavora con 400 donne e soprattutto con bambine, perché uno dei problemi di cui si parla poco, ma che purtroppo è abbastanza comune, è che le famiglie povere danno in sposa la loro figlia, magari di 10 anni. Invece, se queste bambine producono miele, non hanno bisogno di essere date in matrimonio, perché quella bambina si occupa di produrre il miele”. In un momento in cui in Europa si registra una perdita del 60% della produzione di miele, “perché siamo infestati da un acaro e a causa dei pesticidi, mentre in Africa al momento non è così”.
Faccio presente di aver saputo che coltiveranno anche altri prodotti come la Moringa: “Sì, è vero, ma in Europa è ancora sconosciuta. Presto partirà il progetto in Zambia con le comunità rurali, in terreni che ci danno in concessione. Lavoreremo con questa comunità, pianteremo anche leguminose perché aiutano gli alberi e generano un’economia circolare. Dai rami che devono essere tagliati due volte l’anno si può ricavare biocarburante, sarà un utilizzo circolare. Un altro prodotto è il peperoncino, abbiamo scoperto che viene usato per proteggere i campi dagli elefanti”.
Gli chiediamo se ci conferma che la produzione africana avesse bisogno di legami per arrivare al mercato europeo. “Più che legami, ha bisogno di una modalità diversa, perché è abituata al sistema coloniale, dove la relazione era estrattiva, portavano via le risorse. Ora l’idea è creare questi progetti che, inoltre, evitano il fenomeno della migrazione, i locali non hanno bisogno né voglia di andarsene, vogliono stare a casa loro. Li aiutiamo, non regalando loro soldi, ma lavorando insieme a loro, vendendo i loro prodotti”.
Una curiosità: gli africani hanno un gusto per il caffè? “No, normalmente non consumano caffè. Il Kenya è stato sotto dominio inglese, consumano tè, non caffè”.
Li lasciamo con progetti e altri in arrivo. Se l’obiettivo è creare una catena di valore, ci riusciranno.