Coronavirus, Papa Francesco all’UE: “Un’Europa solidale, senza egoismi e per il bene comune”

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Fino a qualche mese fa era impensabile sviluppare il nostro lavoro e tenere vive le relazioni con i nostri amici e parenti, perché pensavamo di non avere capacità o la possibilità di collegarci alla rete. Ma è stata sufficiente una pandemia per cambiare la nostra opinione. Stiamo vivendo momenti epocali: stanno cambiando gli ingranaggi e interi pezzi della nostra vita lavorativa ed economica. Lo Smart working, le videoconferenze con Meet e Zoom e tante altre diavolerie tecnologiche, nell’emergenza, sono diventate pane quotidiano. Una pandemia che secondo gli esperti ci accompagnerà per un lungo periodo.

È meglio oggi parlare di lavoro di cittadinanza, come aveva detto due anni fa papa Francesco. Il reddito Universale è la creazione di un fondo di garanzia del capitale, esattamente quello che esiste già per le banche e per l’industria, che serve solo a tutelare da qualsiasi rischio di virus finanziario. Ecco perché – aggiunge il pontefice-  togliere il lavoro a una persona è il massimo dell’ingiustizia, con l’urgenza di mettere al centro delle nostre attività l’essere umano. Sono circa 4 milioni gli italiani che sfiorano la soglia della povertà a causa del coronavirus, numero in aumento se non si prenderanno provvedimenti per contenere il dato.

Infatti, per far fronte alle esigenze del lavoro, Francesco ha auspicato la creazione di un fondo di garanzia che verrà utilizzato solo nel bisogno. Se già esiste un fondo di garanzia per il comparto finanziario perché non generare un fondo di garanzia per il lavoro? È chiaro poi che la dignità della persona si realizza soprattutto con il lavoro e attraverso il lavoro.

La solidarietà è uno dei punti cardine della costruzione dell’Europa, ma in questo periodo di confusione e di calo di fiducia «per salvare l’Europa abbiamo bisogno di un supplemento d’anima”. Lo afferma Stefano Zamagni, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e professore di Economia politica all’Università di Bologna. Invita a recuperare i valori dei fondatori dell’UE, “perché nessun paese, da solo, può uscire da questa situazione”. La pandemia di coronavirus ha dimostrato “l’impotenza di Bruxelles di rispondere alla situazione straordinaria che stiamo vivendo, che passa, però, attraverso una convergenza di interessi su alcune questioni».  

“Ora, mentre pensiamo a una lenta e faticosa ripresa dalla pandemia – ha detto Francesco – si insinua proprio questo pericolo: dimenticare chi è rimasto indietro. Il rischio è che ci colpisca un virus ancora peggiore, quello dell’egoismo indifferente. È tempo di rimuovere le disuguaglianze. Dio non si stanca di tenderci la mano per rialzarci dalle nostre cadute. Questa prova è «un’opportunità per preparare il domani di tutti».

Abbiamo incontrato Stefano Zamagni, Ordinario di Economia politica all’Università di Bologna e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Professor Zamagni, che lezione ci sta lasciando la terribile crisi pandemica che stiamo vivendo?
La prima grande lezione che ci viene dalla pandemia della SARS-2 è che abbiamo bisogno tutti – politici, scienziati, uomini d’affari, persone comuni – di un grande bagno di umiltà. Troppo a lungo si è coltivata l’illusione che le nuove tecnologie convergenti potessero assicurarci uno sviluppo lineare, senza limiti seri di sorta. Sarebbe bastato aspettare. Si consideri, ad esempio, le promesse del progetto transumanista, incardinato presso l’ University of Singularity in California, di arrivare entro il 2050, a portare la durata della vita umana fino a 120 anni – secondo una dichiarazione recente del professor Kurzweil. Nel pieno e convinto riconoscimento del fondamentale ruolo della scienza, occorre ammettere che la scienza è altrettanto erratica quanto le altre pratiche umane. I miti sono sempre pericolosi, quale che sia l’ambito in cui prendono forma.

Mi faccia un altro riferimento…
Una seconda grande lezione è che non si può prescindere da quella virtù cardinale che è la prudenza, che non è – si badi – la disposizione di chi, essendo avverso al rischio, teme di prendere decisioni. È vero il contrario. L’uomo prudente – sia esso il politico o l’imprenditore – è chi sa vedere lontano per realizzare il bene comune (non il bene totale). Questa pandemia non è un caso di cigno nero, perché era prevedibile. Ed infatti era stata prevista da D. Quamman nel 2010 (Spillover, Adelphi, 2012), da A. Fauci nel 1997 e da altri ancora. La verità è che non abbiamo voluto investire risorse per migliorare la nostra vulnerabilità. Ora, ne spendiamo (molte di più) per far fronte alla fragilità.

La fiducia nei confronti dell’Unione Europea è calata molto. Che ruolo ha giocato l’Europa nella lotta alla pandemia?
Anche in tale occasione, l’Europa ha dimostrato di non essere una Unione, in senso proprio, cioè una comunità di destino. Una comunità (cum-munus) è tale quando chi ne fa parte mette assieme i doni secondo certi criteri da tutti sottoscritti. La discussione sulle tecnicalità (MES, Eurobond, Fondi vari) non porta lontano se non si definisce, previamente, il fine che si intende perseguire. Oggi, l’Europa deve tornare agli inizi, al progetto voluto dai suoi padri costituenti. Ecco perché c’è bisogno di un supplemento d’anima, che porti alla riscrittura dei Trattati, a cominciare da quello di Maastricht (1992). Non è mai buona politica quella che prescinde dall’etica.

I corpi intermedi della società, quelli che non seguono la logica del mercato, della sussidiarietà e del servizio civile universale, il terzo settore, che ruolo avrà dopo la fine della pandemia?
L’Italia ha un Terzo Settore ricco di 336.000 enti – dal volontariato alle cooperative sociali, alle associazioni di promozione sociale, alle imprese sociali, alle Fondazioni, alle ONG – che ci invidia il mondo intero. Eppure, nella gestione della pandemia non è stato coinvolto nella fase della progettazione degli interventi e solo marginalmente nella fase della loro esecuzione. Si è così sprecata una risorsa fondamentale che avrebbe potuto essere messa a frutto, a beneficio di tutti, a cominciare dai contagiati, dai medici e infermieri e dalla società tutta. Perché questo non è avvenuto? La risposta è avvilente. Perché nel nostro paese non si vuole (ancora) prendere in seria considerazione il principio di sussidiarietà circolare. Ci si limita alla versione della sussidiarietà orizzontale – che non è la vera sussidiarietà. È triste da dirsi, ma è la verità. E la ragione è che né la prospettiva neo-liberista né quella neo-statalista sono in grado di far posto alla sussidiarietà circolare nella loro visione del mondo. Ho motivo di ritenere che non ci vorrà ancora tanto tempo perché un cambiamento radicale abbia a prodursi a tale riguardo.

Papa Francesco nel suo messaggio pasquale Urbi et Orbi ha fatto un appello che addirittura “venga cancellata il debito che grava sui bilanci dei paesi poveri». Cosa ne pensa?
Raccogliendo una raccomandazione del Card. Tagle, presidente di Caritas Internationalis, esternata nel corso di un’omelia domenicale, papa Francesco ha inteso lanciare un appello per andare incontro alla situazione tragica in cui già oggi vengono a trovarsi i paesi più poveri. Perché, se è vero che la pandemia colpisce tutti, è del pari vero che essa non è “democratica”: colpisce assai più violentemente i poveri. Allora una remissione del debito o, almeno, una moratoria di alcuni anni dello stesso, scongiurerebbe una catastrofe umanitaria certa, con effetti devastanti anche sui paesi dell’Occidente avanzato, come è possibile immaginare. Si pensi alla trasmissione di malattie infettive di origine zoonotica; ai flussi migratori; alla distruzione degli ecosistemi etc. Ecco perché quello di papa Francesco è un appello accorato, dettato da ragioni di buon senso, che si aggiungono a quelle più fondamentali di natura etica.

Come possiamo interpretare il messaggio del Pontefice riguardo alla necessità di un reddito di base per tutti i precari del mondo?
La proposta di papa Francesco di pensare ad un reddito di base di carattere universale va letta all’interno di una riflessione di più ampia portata che sintetizzo nei termini seguenti. Una confusione di pensiero frequente (anche fra gli stessi addetti ai lavori) è quella di sovrapporre economia di mercato e capitalismo. L’economia di mercato (EDM) nasce tre secoli prima dell’avvento del capitalismo e nasce da noi, in terra di Toscana, per poi diffondersi nel resto dell’Europa. Il suo alveo culturale è la Scuola di pensiero francescana. Quando si arriva alle grandi società commerciali del Seicento e alla rivoluzione industriale, il pensiero francescano non è più funzionale e da ciò trae inizio l’economia capitalistica di mercato. Ciò significa che il capitalismo è il «mezzo» per consentire ai fini dell’economia di mercato di realizzarsi nei nuovi contesti storici che si erano determinati. Fino a pochi decenni fa c’era, oltre all’economia capitalistica di mercato (ECM), l’economia sociale di mercato (ESM) in Germania e l’economia socialista di mercato in Polonia e Ungheria. Le ultime due forme di EDM oggi non sono più all’ordine del giorno, è rimasta solo l’ECM, che però non è più sostenibile, e in tutti e tre i sensi della sostenibilità. Capire questo significa battersi per «salvare l’EDM, che è il fine da preservare. Ecco perchè la questione oggi centrale è: che cosa va cambiato dei fondamenti dell’ECM ereditati dall’ultimo secolo? A poco serve discutere di policies: queste vengono dopo e pure a poco serve elencare le cose che non vanno bene, se non si cerca di rintracciare le cause profonde dei malfunzionamenti. Mai dimenticare che il capitalismo, di per sè, può andare a braccetto con ogni regime. In Cina, c’è capitalismo di Stato, ma non l’EDM, la quale postula la democrazia; non così invece il capitalismo.

Fonte: http://www.rainews.it/