Riciclo tessile EU vs USA

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La consapevolezza della conclamata crisi climatica, un’economica lenta in recessione e appesantita da vecchi sistemi di funzionamento, l’evidente problema del riciclo tessile, non hanno cambiato né il nostro modo di comprare scegliendo azioni di consumo sostenibile, né il business model della fashion Industry, che non accenna equiparare i goal di profitto con quelli degli impatti ambientali e sociali. 

Ogni anno produciamo 150 miliardi di vestiti e 48 miliardi di sneakers. Produciamo moltissimo e con una qualità bassissima.  Non abbiamo modelli per una gestione che sia efficace degli scarti, degli invenduti e dei dismessi. La maggior parte degli indumenti in commercio perdono drasticamente la loro qualità e peggiorano il loro aspetto dopo solo pochi cicli di manutenzione. Dallo scontrino al cassonetto di riciclo o indifferenziata il passo è sempre più breve, ma soprattutto i volumi sono sempre più elevati. 

L’ultimo comunicato stampa dell’Associazioni Riciclo Olandese (VHT- Vereniging Herwinning Textiel) informa con certo allarme che ci sono “28 milioni di capi nei vari centri di riciclo che aspettano d’essere smistati altrimenti andranno nell’inceneritore». 

L’Unione Europea sta legiferando e incentivando le vie che escludano lo smaltimento dei tessili negli inceneritori o discariche promuovendo anche la cultura al second hand, ma anche se dei capi portati al riciclo possono essere riusati per un secondo giro… poi che ne facciamo? Si stanno affinando le tecnologie che portano alla frammentazione o defibrazione dei capi, ma la quantità di materia prima da gestire è comunque enorme, disuniforme per natura e provenienza e spesso nasconde inquinanti e sostanze pericolose. 

In questo mare magnum di pessime notizie, la Commissione Europea  ha prodotto un documento interessante: la Corporate Sustainability Due Diligence Directive o  CSDDD che mira a promuovere comportamenti aziendali sostenibili e responsabili dall’agricoltura al tessile. 

Seppur annacquata dalla pressione delle lobby che hanno convinto il legislatore ad abbassare l’asticella, la direttiva verrà votata in aprile dal parlamento e nonostante le modifiche, questa legge rappresenta un passo di progresso significativo per i diritti delle comunità in tutto il mondo. Le imprese dovranno dichiarare l’impatto e gli effetti di cui sono responsabili sia nel contesto dei diritti umani sia per l’ambiente. Cito dal documento: “Al fine di raggiungere pienamente gli obiettivi di questa Direttiva che affronta gli impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente riguardanti le operazioni delle aziende, le operazioni delle loro controllate e dei loro partner commerciali nelle catene di attività delle aziende, dovrebbero essere incluse anche le aziende di paesi terzi con operazioni significative nell’UE.” 

La legge abbraccia molte merceologie, come accennato sopra, ma, soprattutto causerà ripercussioni non indifferenti nei paesi extra europei. 

Per il tessile si è voluto mitigare l’impatto alzando l’obbligo di adempimento ad aziende con più di 1000 dipendenti e un fatturato superiore ai €450 milioni; queste dovranno mettere in atto la Due Diligence per rendicontare le loro produzioni, dichiarando tutti i possibili impatti negativi dai diritti umani e all’ambiente, applicando azioni correttive giuste, nelle operazioni aziendali, incluse le società controllate e le catene del valore.  

Pensando quindi all’impatto che questa direttiva avrà oltre i confini europei, viene istintivo guardare oltreoceano agli Stati Uniti. 

L’agenzia preposta alla salvaguardia dell’ambiente USA, con il ruolo centrale di monitorare lo stato di salute degli ecosistemi è l’Epa, creata da Nixon nel 1970. Ad oggi, il riciclo tessile e il suo indotto, non trova interesse; infatti, bisogna entrare negli archivi dell’agenzia per trovare una breve nota del “lontano” 2018 dove questa informa il governo sullo stato dello smaltimento e del riciclo di abbigliamento e calzature senza però dare indicazioni chiave o direzioni applicative di approccio al problema.  

“L’EPA attualmente misura la generazione, il riciclaggio, il compostaggio, la combustione con recupero energetico e lo smaltimento in discarica dei materiali tessili nei rifiuti solidi urbani o MSW (Municipal Solid Waste). Secondo le stime dell’EPA per il 2018, la generazione di tessili ha raggiunto le 17 milioni di tonnellate, rappresentando il 5,8% del totale dei rifiuti solidi urbani di quell’anno. Queste stime sono basate in parte sui dati di vendita forniti dall’American Apparel and Footwear Association. Nel 2018, il tasso di riciclaggio per tutti i tessili ha toccato il 14,7%, con 2,5 milioni di tonnellate riciclate. Il problema è amplificato dal fatto che circa il 60% di questi materiali tessili è costituito da plastica. Il loro smaltimento tramite inceneritori può rilasciare sostanze chimiche dannose nell’aria, con conseguenti impatti negativi sulla salute umana e sull’ambiente circostante. Per affrontare questa sfida, è necessario implementare pratiche di circolarità più efficienti nell’industria tessile. In questo contesto, la Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) emerge come un possibile catalizzatore per promuovere un cambiamento positivo e stimolare l’innovazione nel settore.” 

Sono solo due gli Stati americani che hanno introdotto iter legislativi specifici per regolamentare l’industria tessile: New York e la California. 

La deputata dr. Keller (D-NY) insieme al Senatore Kavanagh (D-NY) hanno presentato all’Assemblea Generale dello Stato di New York una proposta per modificare la legge sulla conservazione ambientale, che complementerebbe rafforzandola, la già esistente Responsabilità Estesa del Produttore (S7428/A8352).  L’anno scorso, infatti, al Global Fashion Summit in Danimarca, Dr. Keller aveva enfatizzato l’importanza di monitorare i traguardi sui diritti umani e sulla sostenibilità ambientale nel contesto degli obiettivi riguardanti clima e uso dell’acqua nella produzione tessile.   

Comunemente nota come Fashion Act, apporterebbe un cambiamento quasi epocale all’interno dell’Unione dove la maggior parte del rifiuto tessile viene incenerito, interrato o esportato. Un punto di partenza significativo, in quanto include sia rigorosi requisiti di tracciabilità nella catena di approvvigionamento che la divulgazione obbligatoria degli impatti ambientali e sociali per i rivenditori e i produttori di moda operanti a New York. 

È richiesta maggior trasparenza e soprattutto il rispetto dei diritti umani nel contesto della contrattualità. Cito: “le società dovranno dichiarare il volume annuale di materiali prodotti, la percentuale di quelli riciclati e inutilizzati, dovranno stabilire obiettivi di base verificabili per la riduzione delle emissioni di gas serra, la quantità di acqua usata e molto altro, tra cui la gestione delle sostanze chimiche e gli impatti sociali e ambientali delle aziende.”  La Fashion Act sviluppa e crea nuove pratiche di gestione, cercando di modificare cambiandola, la cultura dell’industria stessa. L’ impatto sarà sui principali marchi di moda operanti nello Stato con ricavi globali superiori a 100 milioni di dollari, come Gap, Ralph Lauren e Tapestry, e attori internazionali come Shein, H&M, LVMH, Prada e molti altri.  

È inoltre interessante che sia prevista la creazione di un fondo di risanamento a beneficio delle comunità. Questo fondo, gestito da commissari statali, sarebbe finanziato dalle multe inflitte ai produttori di moda che non si attengono alle conformità della nuova legislazione e prevederebbe sanzioni fino al 2% dei loro ricavi lordi annuali. 

A rafforzare questa azione legislativa, si affianca il senatore Hoylman Siegel, (D-NY), promotore invece del Fashion Workers Act, che regolamenterebbe diritti e doveri dei lavoratori del settore, e che, oltre ad includere linee guida contro molestie sessuali e discriminazione, mira a dettare regole inderogabili in merito a retribuzioni e loro tempistiche. Spesso, infatti, i lavoratori vengono retribuiti un anno dopo aver completato il lavoro. Ci si aspetta che il disegno di legge venga approvato entro l’anno. 

Un progetto audace e ambizioso e il primo punto di riferimento per la nazione, che potrebbe ridisegnare il futuro di una tra le industrie più floride ma impattanti del pianeta. 

Parallelamente, sulla costa pacifica degli Stati Uniti, il Senatore della California Newman (D-Ca), ha presentato il disegno di legge al Senato SB 707, noto come Legge per il Recupero Responsabile dei Tessili, con l’obiettivo di migliorare il riciclaggio e il riutilizzo di abbigliamento e calzature dismesse. Attualmente, il rifiuto tessile finisce nelle discariche, contribuendo significativamente alle emissioni globali di gas serra. Anche questa regolamentazione propone un programma di Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), finanziato e implementato dall’industria tessile sotto la supervisione del Dipartimento della California per il Riciclaggio e il Recupero delle Risorse. I produttori dovrebbero finanziare, progettare e implementare il programma per la raccolta, la selezione e il riciclaggio, sottoponendosi alla supervisione di CalRecycle. Infine, essendo storicamente la California, uno Stato che da sempre è il più attento e restrittivo in merito all’inquinamento da sostanze chimiche pericolose per le risorse idriche dello stesso, ha volutamente affrontato il gravoso problema delle microplastiche. Per questo è previsto che, dal 1° gennaio 2029, sia vietata la vendita di nuove lavatrici sprovviste di filtri di scarico idonei alla cattura delle microfibre. 

Tuttavia, le crescenti divergenze fra i diversi attori coinvolti, il disegno di legge è stato temporaneamente ritirato dal Comitato per le Risorse Naturali dell’Assemblea Generale, in attesa di spianare, entro l’anno, le differenze e accorciare le distanze fra i vari soggetti. 

Pur mettendo sul campo leggi ed approcci differenti appare evidente che sia in America sia in Europa il business model del tessile è una priorità da ridisegnare, contenere e sanificare. Un settore che finora ha nascosto pratiche poco chiare e non normate a sufficienza deve guardare al futuro pensando ad un’evoluzione radicale dei propri obbiettivi strategici, ma anche al passato, assumendosi la complessa ma necessaria responsabilità di gestire volumi e impatti di ciò che fin ora ha prodotto.